E’ di queste settimane la diffusione dell’indagine sulla pratica religiosa, un dato in linea con quanto, già da un decennio, si riscontra nelle nostre comunità, ma con un calo fortemente accentuato negli ultimi anni sicuramente dal covid e dal post covid.
Riassumendo, i dati sono tanti, ma mi soffermerei in particolare su due aspetti.
Il primo è che il dato (del 2022) della frequenza settimanale ad un rito religioso comunitario è il più basso che si riscontra nella storia recente del nostro paese. Negli ultimi 20 anni (dal 2001 al 2022), il numero dei «praticanti regolari» si è quasi dimezzato (passando dal 36% al 19%), mentre i «mai praticanti» sono di fatto raddoppiati (dal 16% al 31%).
Il secondo riguarda i giovani: i praticanti assidui tra gli adolescenti sono passati dal 37% del 2001 al 20% del 2019 e al 12% del 2022; mentre, tra i 18-19 anni, la pratica regolare che coinvolgeva nel 2001 il 23% dei soggetti, è scesa al 11% dei casi nel 2019 e all’8% nel 2022.
Si tratta di dati che fotografano certamente uno degli aspetti, nello specifico quello della partecipazione alle pratiche religiose e, in particolare alla Messa, che sono sotto agli occhi di tutti. Direi che però, se andiamo a guardare e a contestualizzare questi numeri nel complesso anche della vita comunitaria, oltre la messa domenicale, ne ricaviamo una fotografia di una Chiesa di vecchi e di bambini, che spesso, terminato il cammino della prima Comunione, si eclissano e scompaiono con i loro genitori.
Accanto a questi dati si è insinuato sempre più tra “gli addetti ai lavori”, Sacerdoti e laici, un senso di stanchezza e di pessimismo che si avverte nelle parole e negli atteggiamenti. Il rischio è molto grande ed quello di chiudersi in ridotte fortificate al sicuro con i nostri riti e le nostre tradizioni, teorizzando un mondo che non c’è più. Ma è questa la strada da seguire?
Riflettendo mi è venuto in mente l’episodio dei discepoli di Emmaus che rappresentano in modo veramente puntale lo stereotipo di due autentici pessimisti cronici (Lc 24,13-35). Sono due, perché il pessimismo è contagioso. Nel loro andare si allontanano da Gerusalemme, al contrario del cammino fatto da Gesù. Stanno parlando tra loro e fanno un riassunto del vangelo in apparenza preciso, ma tralasciano la cosa fondamentale, la risurrezione di Gesù, al punto che anche la testimonianza delle donne viene da loro ridotta a una visione inattendibile.
La situazione, ad un certo punto del loro allontanarsi, cambia radicalmente con l’intervento di Gesù. Gesù non li convince con un ragionamento, né si accontenta di dare loro un buon consiglio, un po’ quello che capita spesso di fare, ma racconta una storia. La storia della sua vita. Con un punto di vista preciso ed il finale corretto della storia: «
Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».
È questa, un po’, la ricetta dell’Evangelii gaudium dalla quale dobbiamo ripartire: dal Vangelo, dalla semplicità dell’annuncio e dalla costruzione di comunità umane. È l’unica chance di futuro per la Chiesa. Quelle che abbiamo sperimentato al tempo del Covid, in maniera digitale, con tanti contatti, con un linguaggio semplice e diretto.
Possiamo costruire comunità esposte ai venti alle piogge e ai fiumi, ma che sappiamo non cadranno, perché fondate sulla roccia della Parola. Non comunità perfette, ma luoghi di incontro vero e personale dove accogliere e testimoniare, dove affiancarsi a tutte quelle persone agitate da domande e inquiete perché non hanno risposte.
Se la Chiesa diventa relazione fraterna, come siamo chiamati a fare, tutti incontreranno, in un mondo di isolamento e individualismo permanente come è quello di oggi, la presenza buona di Gesù. Cosi facendo, forse i numeri non cambieranno, ma sicuramente saremmo meno pessimisti.