La pandemia sembra aver accelerato un processo che in realtà era in atto da molto tempo, tanto che già alla fine del secolo scorso il teologo Jean-Marie R. Tillard scriveva una lettera ai cristiani del Duemila, dal titolo provocatorio “Siamo gli ultimi cristiani?”, mentre è del 2012 il libro di Marco Marzano “Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia”, che parlava di un “banco vuoto”, ridimensionando i dati diffusi sulla pratica religiosa. Dati, quelli dei sondaggi, che presumibilmente hanno sempre sopravvalutato la frequenza alla Messa, come ha dimostrato nel 2004 il conteggio diretto dei partecipanti alla Messa domenicale in tutte le chiese del Patriarcato di Venezia: secondo i curatori dell’indagine, Alessandro Castegnaro e Gianpiero Dalla Zuanna, le frequenze dichiarate sono molto più alte di quelle reali, ben conosciute invece dai preti per esperienza diretta.
Si possono quindi porre interrogativi anche sui recenti dati Istat, che hanno avuto larga eco sulla stampa: la frequenza di un luogo di culto (in generale, non solo cattolico) almeno una volta alla settimana riguarda nel 2022 il 18,8% della popolazione italiana, il 15,4% nella nostra regione, con quasi un dimezzamento rispetto al 2001, quando il dato nazionale era del 36,4%. Ma la diminuzione è molto maggiore negli adolescenti passati dal 37% del 2001 al 12% del 2022. Un dato nazionale analogo di partecipazione all’Eucarestia domenicale (18%) emerge dall’inchiesta della rivista Il Regno, secondo cui comunque il 72% degli italiani si dichiara cattolico. Ci troviamo di fronte a un cristianesimo di minoranza, in via di progressiva erosione, rispetto al quale la dichiarazione di appartenenza cattolica è solo un dato identitario privo in gran parte di qualsiasi legame con la comunità e lo stile di vita cristiani.
Se, di fronte a questa situazione, alcuni laicisti anticlericali esultano mentre la reazione media, come afferma il teologo Brunetto Salvarani, “corrisponde per lo più a un’alzata di spalle, a un disinteresse trasparente ed endemico”, chi ha a cuore la buona novella che la Chiesa è chiamata ad annunciare non può esimersi dall’interrogarsi e dall’operare per una nuova inculturazione del cristianesimo, atta a superare quella che la sociologa francese Danièle Hervieu-Léger ha definito esculturazione. Salvarani, dando ormai per scontata la fine della cristianità come “scenario, in ogni caso, consegnato alla storia”, ritiene che anzitutto sia necessario interrogarsi sulla “crisi di Dio”, questione ancor più rilevante; capire cos’è successo e come e perché è successo; domandarsi come potrà essere la Chiesa del futuro, che certamente non sarà una riedizione del passato.
Da dove partire? Dai bisogni di senso, di orizzonti di vita e speranza, di spiritualità e salvezza tuttora diffusi, anche se spesso indirizzati altrove. Per rispondere a questi bisogni è necessario uscire dai recinti per incontrare le persone nei loro contesti di vita, camminando sulle strade come faceva Gesù, uscendo anche dai recinti di parole e tradizioni che l’abitudine ha reso usurate, talora incomprensibili, per inculturare la fede in nuovi linguaggi.
La crisi attuale potrebbe essere un
kairòs, se avremo il coraggio e l’energia per coglierne un’opportunità di conversione evangelica. Già nei primi anni ottanta p. Ernesto Balducci scriveva: “Il crollo degli orizzonti culturali del passato può provocare smarrimento e funesti presagi solo in chi aveva, sulla spinta della tradizione, identificato il suo mondo con il mondo, la sua civiltà con la civiltà, la sua salvezza con la salvezza. Nei veri credenti, invece, quel crollo suscita la lieta scoperta di nuove possibili dilatazioni e porta alla luce del sole la naturale capacità dell’uomo a trascendere se stesso morendo al proprio particolare per dar corpo a una forma più universale di convivenza tra gli uomini. È lʼethos del trascendimento, che oppone all’imminente irruzione del fuoco il ramoscello di mandorlo, alla morte incombente la fragile possibilità di una vita diversa”.
Secondo Salvarani, “La posta in gioco è davvero alta (il che vale anche, ovvio, per l’odierno Cammino Sinodale). Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi”.
Gabriella Burba, delegata diocesana per le Aggregazioni Laicali