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«Ripartiamo insieme e con le periferie»

data di pubblicazione: 14-06-2021

Giuseppe Notarstefano intervistato da Famiglia Cristiana

In questi giorni i media nazionali e locali hanno dato risalto alla nomina del nuovo presidente di Ac, Giuseppe Notarstefano e agli impegni prossimi e futuri dell’associazione. Tra gli altri, ne hanno parlato Radio Vaticana, RadioinBlu, Avvenire, Sir, Rai Sicilia, La Repubblica Sicilia e oggi un’ampia intervista a Famiglia Cristiana che vi proponiamo integralmente.
«Aiutiamo chi stenta ad abbracciare dei valori, nuovi poveri ed emarginati, carcerati. In primo luogo, io, siciliano, mi affido a Livatino e Padre Puglisi»: così Notarstefano in un passaggio dell’intervista che tocca diversi temi di attualità sia ecclesiali che sociali.

di Annachiara Valle - «Un’associazione resiliente, giovane e sinodale». Giuseppe Notarstefano prende in mano un’Azione cattolica vivace, forte dei suoi quasi 270 mila iscritti e con una capacità rafforzata di intercettare e rispondere alle domande e ai bisogni del nostro tempo. Lo fa, palermitano vissuto a Canicattì, «affidando le mie preghiere, non lo nascondo, a Rosario Livatino. Sono particolarmente legato al giudice ucciso dalla mafia e ho vissuto con gratitudine spirituale il fatto che la mia nomina sia avvenuta poco dopo la sua beatificazione». Bocconiano, ricercatore di Statistica economica e attualmente professore alla Lumsa di Palermo, dopo aver insegnato in vari corsi in università italiane e straniere, ricorda l’impegno dell’associazione per la legalità, come «questione che ci tocca nel profondo perché la necessità e il bisogno di giustizia sono sempre un atto di carità».

In che senso?

«Ricordo i tanti soci che, dal Veneto alla Lombardia, all’Emilia Romagna, sono venuti in Sicilia, nella terra di Rosario Livatino e padre Pino Puglisi, per le attività estive, quelle che chiamiamo campi scuola, quasi per riconoscere il valore di alcune testimonianze e, nello stesso tempo, per dire l’importanza che abbiamo nell’educare ai temi della giustizia e della legalità, e a essere realtà che opera per il bene di tutti. Lo dice papa Francesco nella Laudato si’, quando parla di bene comune, in termini di giustizia; c’è se raggiunge i più fragili, i più vulnerabili, se genera inclusione e coesione sociale».

E invece cresce la disuguaglianza?

«Cambiano tante cose, lo abbiamo visto in questo tempo, ma rimane un profondo bisogno di giustizia soprattutto quando c’è un dato sociale così drammatico come le disuguaglianze a tutti i livelli: sociali, nella scuola – dal digital divide al fenomeno della dispersione scolastica –, nel mondo del lavoro tra uomini e donne… In questo contesto il tema della giustizia dovrebbe essere obiettivo della politica ma, prima ancora deve essere un punto fermo nell’educazione».
Azione cattolica e pandemia…

«È stata capace di fare di questo tempo una opportunità di trasformazione. È riuscita, anche attraverso le nuove piattaforme, a dare continuità alla sua vita. Certo i piccoli e i più giovani hanno sofferto ed erano stanchi perché avevano già la scuola in dad e, quindi, la proposta associativa in piattaforma è stata un ulteriore richiesta di sforzo. Gli anziani sono riusciti a fare un grande upgrade tecnologico, spesso aiutati dai nipoti. C’è stata forte consapevolezza che la sfida non riguarda solo noi. E che la ri-partenza significa che dobbiamo fare memoria di quello che abbiamo vissuto, anche dei dolori, dei drammi, e cercare di elaborare un percorso capace di rispondere alle esigenze di questo tempo».
Quali sono?

«Una questione importante per i giovani è tenere assieme la vita associativa, quella professionale e quella familiare. Questa fascia d’età è quella socialmente più colpita dalle crisi degli ultimi decenni. In molti sono stati costretti a spostarsi nei territori. E non solo per una giusta aspirazione, perché magari si decide di studiare a Milano perché c’è un corso attivo solo lì. Spesso questa mobilità è forzata e genera precarietà. Per noi è importante,
visto che l’associazione è presente da Lampedusa a Cortina D’Ampezzo, che le persone possano sempre sentirsi accolte e invitate a camminare insieme. Per fare questo ci vuole una rete capace di incontrare, andare a scovare le persone, ci vogliono responsabili attenti e ci vuole una spiritualità dell’accoglienza».

Sarete coinvolti anche nel prossimo Sinodo?

«Siamo contenti che il Papa ci abbia riconosciuti come “una palestra di sinodalità”. Questo è importante perché, da un lato, ci riconosce il valore di alcune cose che abbiamo fatto in questi anni e, dall’altro, ci impegna ad andare avanti. Quella del Sinodo è una grande questione della vita della Chiesa e noi vogliamo essere a servizio di questo percorso che riguarda soprattutto la capacità di costruire spazi di autentico ascolto. Siamo un’associazione che, per sua natura, “tiene insieme”: tiene insieme le diverse età, vocazioni – laici, assistenti, sacerdoti religiosi –, sensibilità culturali, diverse aree geografiche del Paese, condizioni di vita. Questo “tenere” non è scontato e può generare conflitti. Però abitare queste tensioni e cercare di attraversarle credo sia lo stile che ci permette di maturare una autentica sinodalità. Cercando di fare in modo che tutti si sentano raggiunti da questo desiderio di camminare insieme».

Ci sono degli esempi del camminare insieme?

«Mi vengono in mente, fra le cosiddette buone pratiche, alcuni percorsi locali di riconciliazione, di servizio. A Palermo, a Rossano, a Napoli, in Sardegna, sono stati attivati gruppi all’interno delle carceri. È un piccolo segno per dire che l’Ac vive pienamente nelle comunità, ma cerca di costruire dei percorsi di formazione anche in alcune “frontiere”. E questo non per un vezzo, ma perché riconosciamo che, a partire da quelle periferie, rigeneriamo la vita delle comunità. Abbiamo bisogno di queste persone per lasciarci interrogare da alcune domande. Faccio l’esempio del carcere, ma ci sono tante questioni aperte in questo momento che dividono la vita delle famiglie, dividono il Paese. Provare a essere una realtà associativa ospitale, capace di incontrare queste tensioni, è un passo fondamentale per crescere come Chiesa sinodale».

E sull’ecologia integrale?

«È un tema straordinario. C’è la consapevolezza che dobbiamo partire da noi perché alcuni cambiamenti dipendono dal modo in cui organizziamo la vita nella nostra giornata, da come utilizziamo i beni, le risorse, da come gestiamo la casa, programmiamo le vacanze.
Sono segni importanti che vanno accompagnati da processi a livello istituzionale, dall’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo. Questo è un tempo interessante perché il cambiamento di strategie delle politiche comunitarie, la next generation Ue, il Pnrr sono delle grandi occasioni che possono dare una spinta a quella che a me, più che transizione, piace definire trasformazione. Il tema dell’ecologia integrale è una grande piattaforma politica».

Appunto, l’impegno in politica.

«Abbiamo bisogno della migliore politica, capace di elaborare visioni che orientano il futuro, che costruiscono scenari, percorsi, individuano strumenti normativi, legislativi. E questo significa riprendere anche un modello di politica che è dialogo, partecipazione. In questa ottica vanno anche incoraggiati i partiti a essere luoghi di mediazione e composizione dei diversi interessi sociali. Guardare al bene comune non è un invito a essere buoni, ma a cercare quell’includere tutti che permette di ridurre le disuguaglianze e di trovare strade più giuste nella redistribuzione delle risorse, nella valorizzazione delle persone. Questa è la grande sfida».